Il 14 gennaio 2011 il presidente tunisino Zine el-Abidine Ben Alì abbandonò il paese con la famiglia per l’Arabia Saudita dove ottenne protezione. Quella data decretò, oltre la fine del suo regime, anche il proprio oblio. Sicuramente fece più rumore quella fuga che la sua morte in esilio il 19 settembre scorso all’età di 83 anni. La notizia giunta inaspettata attraverso i media – in pochi sapevano della sua malattia – ha per certi versi riportato alla memoria la rivoluzione dei gelsomini, le mobilitazioni popolari, le 300 morti per mano del regime, ma soprattutto ha riportato alla memoria la nascita della democrazia dopo decenni di autoritarismo.
A quasi dieci anni da quella rivoluzione – l’unica nella regione che ha prodotto un cambio effettivo di regime politico – tra tante luci ritroviamo un paese che ha ancora molte ombre. Parte delle ragioni che scatenarono le proteste di quel periodo sono ancora presenti oggi. Tra le più rilevanti vi furono le rivendicazioni per la mancanza di lavoro e un livello minimo di assistenza sociale. Alcuni dati tracciano con efficacia cosa sia successo in questi anni. Basti pensare che, dopo la caduta del regime di Ben Alì, la disoccupazione tra il 2010 e il 2012 è passata dal 13% al 17,6%, per poi stabilirsi nel 2019 al 15,7%. A conferma del peggioramento della situazione economica nazionale, ad aggravare questo dato sono state anche le differenze regionali, in un paese ancora diviso tra zone che hanno agganciato una crescita economica – seppur lieve – e zone di povertà endemica. In queste province più disagiate del paese, la mobilitazione del 2010 ha avuto inizio e ha goduto di una forte spinta. Territori spesso emarginati e dimenticati dalle politiche di Tunisi hanno ribaltato il regime di Ben Alì saldo dal 1987. La campagna elettorale per le prime elezioni democratiche nel 2011 ha visto i partiti di ogni schieramento promettere molto, spesso proprio ai ceti più poveri, i più emarginati del paese. Tuttavia a distanza di tempo la situazione economica sembra essere peggiorata. Altro aspetto non marginale è la stabilità e la sicurezza della dawla tunisia (Stato tunisino). Schiacciata tra Algeria e Libia, la Tunisia ha sofferto l’instabilità regionale. La guerra civile in Libia, i gruppi terroristici nel deserto del Maghreb, i traffici illegali e le tensioni vicine al proprio confine hanno reso il controllo del proprio territorio sempre più difficile. Oltre al complicato controllo dei porosi confini nazionali, il problema principale è stato proprio il rafforzamento della sicurezza interna. Gli attacchi terroristici del 2015 al museo nazionale del Bardo e a Susa hanno gettato il paese nell’incubo di scivolare velocemente nel disordine regionale. A questo c’è da aggiungere l’emorragia dei giovani tunisini che si sono arruolati tra le fila dello Stato Islamico in Siria e in Iraq e in altri gruppi estremisti dell’area. I giovani combattenti provenivano in grande maggioranza proprio dalle province più povere del paese, dove il disagio e la povertà sono state terreno fertile per la propaganda estremista. In questo quadro di difficoltà economica, crescita bassa, alta disoccupazione, rischi terroristici ed instabilità regionale, la Tunisia il 15 settembre scorso è andata al voto. Ad ormai 10 anni dalle rivolte delle Primavere arabe la Tunisia combatte ancora per cercare un consolidamento delle proprie istituzioni e per rafforzare la propria democrazia.
Il risultato delle ultime presidenziali ha fotografato il sentimento del popolo tunisino, un elettorato disilluso che ha perso la fiducia nei partiti tradizionali che tanto avevano promesso all’indomani della rivoluzione. La richiesta di novità e discontinuità, per certi versi, ha spiazzato molti osservatori internazionali. Figure nuove, fuori dal tradizionale mondo politico tunisino, sono riuscite a passare al secondo turno delle presidenziali. Si tratta del professore di diritto costituzionale Kais Saied, giurista conservatore che ha raccolto il 19% dei consensi, arrivato davanti al magnate televisivo Nabil Karoui che ha raggiunto il 15% dei voti. L’affluenza è stata del 49%, questo a testimoniare la crescente sfiducia che si è diffusa nell’elettorato. Il fallimento delle classi politiche tradizionali inserisce di diritto Tunisi nel club dei paesi che hanno visto forti sconvolgimenti politici e la crescita dei partiti populisti. Come nel Vecchio continente, la fluidità dell’elettorato e la destrutturazione del classico schema politico conservatori/progressisti ha aperto spazi prima non immaginabili per gli outsider della politica.
Ora i tunisini sono chiamati a scegliere il loro presidente, forse non illudendosi più che tutto possa cambiare velocemente, anche se i due contendenti hanno fatto una campagna elettorale basata molto sulle promesse.
Il consolidamento democratico non è però né scontato né automatico e il percorso che attende la Tunisia è ancora lungo e tortuoso. La posta in gioco è molto alta per il popolo tunisino, specialmente per chi vive una situazione di disagio e ha riposto la propria fiducia nella democrazia, credendo nei suoi valori di uguaglianza sociale. Il mancato raggiungimento di adeguati standard sociali, la stagnazione economica e l’insicurezza potrebbero riportare in piazza, come in passato, folle di cittadini insoddisfatti e trasmettere così il messaggio che, tutto sommato, si stava meglio quando si stava peggio.
Mohamed el Khaddar